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Fauci

from Aepok by Ruina

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lyrics

Attorno alla pioggia che consumava l’aria sopra al terreno color cenere, il cielo perlato si caricò di altri possibili oceani. Le strade, appesantite dai movimenti delle nubi, conducevano tutto verso il bosco; o almeno, così pareva. Esse si dirigevano alla parte della foresta ibridata con il mondo, rendendo possibile alle erbacce di opporsi al sasso con la malevolenza calcolata dai diluvi.

Dove la fanghiglia si fondeva col pietrisco abitavano un paio di ali nere, un becco, un torace vestito di penne grigie, artigli e la violenta arroganza e l’onnipotenza istupidita degli dei bestiali. Il corvo beccava la terra ferendo il pantano accresciuto dal gracidio dei rospi, solcato dai torrenti che con minuziosa costanza avevano ridotto gli intestini delle colline in ciottoli. Non gli era più rilevante dove fosse il suo nido; difficilmente i corvi provano nostalgia, e ancor più arduo è che soffrano per la distanza dalla propria casa.

Come scaglie di ebano, i suoi occhi sezionavano le folle di querceti che si incurvavano come braccia verso cielo e terra, a formare ripari dall’ombra verde per l’arsura e le piogge. Un solo insopprimibile proposito stava impresso come una runa nel cranio del cacciatore: divorare, mangiare, consumare la realtà e ordinarla alla sua fame; assecondare, con la propria avidità, il naturale processo che comandava a ogni cosa il dissolvimento.

Il corvo continuò a mordere la terra con il nero becco, non solo suo, ma di infiniti altri corvi che si trovavano in lui come una moltitudine di ombre. Impugnando fra gli artigli la polvere umida, perseverò nel suo scavo; semi, germogli di fiori che l’acqua ancora non aveva suscitato: ogni cosa lo colmava di forza, fluendo nella fucina del suo stomaco. Mangiando, con la lenta determinazione di una colata lavica, crebbe spietato.

Cominciò consumando poco a poco il terriccio. Si nutrì delle pietre, dando l’oblio alle scorie del suolo dentro la sua gola. Si rese furtivo per predare gli scoiattoli schivi, le volpi urlanti; crudele, per sovrastare i lupi ringhiosi, gli orsi massicci. Quando terminò di stanare ciò che respirava, divenne colossale.

Sradicò le selve, intrappolate fra le sue unghie come topi: scuoiò i pini scagliosi, spogliò della corteccia bianca le betulle, dilaniò le radici delle mangrovie. Fu poi la volta delle montagne, che inghiottì nel silenzio. Con la lingua immersa nel color ferro dei mari li bevve, senza sopire la sete che lo consumava.

Senza quiete, si scoprì capace di celare con le ali la distanza fra Terra e Luna. Innalzatosi, pazientemente rose negli anni anche il sasso pallido che aveva illuminato le sue notti di caccia. Ciò che rimaneva della Terra, la roccia formata dall’implosione di innumerate stelle e il suo centro, luminoso come un frutto, tutto venne inghiottito senza ordine. Si ornò del Sole come di un gioiello, di un futile vezzo di cui presto ebbe noia e nausea. Quando infine le sue piume copersero anche le nebulose, banchettò con i rimanenti astri.

Si ritrovava sovrano del vuoto. La Morte era ridotta ad un orpello infranto, quella stessa entità cui gli dei dovettero soccombere. Si accingeva a divorare anche il tempo, lo spazio intero lì, fra i suoi artigli. Poi, volato via da quell’universo, avrebbe cercato altri sistemi a cui imporre la sua famelica ferocia.

Allora ricordò ciò che fu prima del suo invincibile proposito. Il bosco, coi suoi aguzzi legni che masticavano il cielo, era stato tutto ciò che aveva mai conosciuto. L’esistenza di quello che dimorava oltre i confini dei suoi ferini svaghi era ipotetica, e altri esseri si erano avvicinati alla sua corte là, prima del suo impero. Mai lui aveva domandato compagnia o calore. Mai essi gli chiesero alcunché. Si attanavano con lui in quel nido di foglie. Questa convivenza fra inselvati, tale vicinanza lo accontentava.

Seppe il volo ubriaco dei calabroni, le sagome nere e gialle delle salamandre, le bocche delle locuste, la cecità delle talpe; apprese i canti dei salici, le esili astuzie dei ratti e i segni segreti che la terra produce. E infine vide le scimmie nude, le più insensate e dubbiose creature che avessero mai battuto il passo sul fango.

Conoscere il pelo, la carne e il sangue che si dibattevano attraverso la polvere lo mutò. Il corvo, che mai aveva avuto necessità oltre al cibo, cominciò a covare desideri. Divenne avido, volle possedere quell’ammasso pulsante di vita, fare in modo che tutti gli altri esseri provassero un irrinunciabile bisogno di lui. Questo lo avrebbe placato e soddisfatto.

Iniziò facendo fluire nel proprio spirito gli altri corvi, tutti gli stormi; fu una prova semplice della propria volontà, guidata com’era da scopi supremi. Divenne ogni corvo esistente; e tuttavia, non fu sufficiente. Gli esseri rimanenti non rinunciavano ad essere bosco, insetto o folgore. Gli concedevano unicamente l’essere corvo.

Fu per questo che si diede a divorare l’universo. Se non fosse riuscito ad essere gli altri, gli altri dovevano trovare spazio unicamente in lui.

Il corvo smise di ricordare. Contemplò dolente la sua opera, l’interminato spazio del nulla. Non è certo se comprendesse la propria cupidigia, ma gli fu chiara la natura della propria fame. Essa non poteva essere saziata; non importava quanto lui persistesse: ogni suo banchetto eccitava ancor di più la sua brama. Allora finì il suo inutile pasto, sbranando il tempo stesso mentre ghermiva e soffocava tutto lo spazio.

Per l’ultima volta, macellò il niente che lo circondava con gli occhi. Spiegò le ali, volò e aprì il becco immenso. Lo stesso essere che aveva corroso nella propria bocca ogni galassia si abbandonò nel vuoto. Depose lo scettro della propria volontà. Finì, una volta per tutte, di essere se stesso e si divorò, piuma per piuma.

credits

from Aepok, released December 19, 2015

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Ruina Galbiate, Italy

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